Trarre conclusioni sulla base del voto di meno di mezzo milione di italiani può essere fuorviante, ma ignorare il dato emerso dall’ultima tornata elettorale sarebbe l’ennesimo errore di valutazione politica delle attuali forze di governo.
Dal 1970, anno in cui sono state istituite le regioni a statuto ordinario, l’Umbria è sempre stata governata da partiti o coalizioni di sinistra o centro sinistra. Negli ultimi cinquant’anni il governo della regione è stato affidato al Partito Comunista Italiano (1970 – 1995), L’Ulivo (1995 – 2005), L’Unione (2005 – 2010) ed infine al Partito Democratico (2010 – 2019). Il mezzo secolo a maggioranza “rossa” ha contribuito a creare il mito di una roccaforte della sinistra, impermeabile agli eventi nazionali, alla dominazione democristiana prima e a quella berlusconiana poi. Per la prima volta il patto tra elettori e rappresentanti dell’Umbria si è infranto e la piccola regione dell’Italia centrale si è concessa al centrodestra.

Le elezioni di ieri hanno certificato, e forse esasperato, il successo di un centrodestra vincente in ognuna delle tornate elettorali svoltesi durante il 2019. Uscito trionfante dagli scontri regionali in Abruzzo, Sardegna, Basilicata e Piemonte e in quelli europei dello scorso maggio il centrodestra targato Matteo Salvini ha rivendicato la “liberazione” dell’Umbria dalla dominazione di sinistra. Soprassedendo sulla scelta del termine liberazione, a lui in altri frangenti inviso, il leader del Carroccio ha effettivamente guidato la coalizione record che porta il centrodestra ad amministrare, in questo momento, ben dodici delle venti regioni del Belpaese.
Prima di annoiare il lettore con qualche dato è però d’obbligo ribadire e spiegare meglio la premessa fatta in apertura: l’ipotetico successo di un centrosinistra nella regione appariva alquanto remoto a causa della scellerata gestione dell’ultima giunta, la cui presidente, Catiuscia Marini, è stata costretta a rassegnare le dimissioni a seguito dell’apertura di un fascicolo da parte della procura di Perugia che la vede indagata per abuso d’ufficio, rivelazione di segreti d’ufficio e falso in atto pubblico. In un clima come quello umbro, con un elettorato tradito ed una giunta dimissionaria sarebbe stato lecito attendersi il successo di chi, più di tutti negli ultimi anni, ha saputo capitalizzare il malcontento popolare al grido di onestà: il Movimento Cinque Stelle.


Secondo i dati ufficiali, pubblicati stamane dal Ministero dell’Interno, alla chiamata alle urne ha risposto presente il 64,69% degli aventi diritto al voto facendo registrare una crescita dell’affluenza di quasi il 10%. A vincere, con il 57,55% delle preferenze, è stata la candidata del centrodestra Donatella Tesei che ha ottenuto ben venti punti percentuali in più di Vincenzo Bianconi, candidato “governativo”, espressione dell’alleanza giallorossa fermo al 37,48%. Il risultato ottenuto va però spogliato dagli orpelli delle innumerevoli liste civiche e mostrato al netto dei soli partiti presenti in parlamento. In tal senso, la Lega risulta essere il primo partito con il 36,95% staccando di più di quattordici punti il Partito Democratico (22,33%) e superando di molto gli alleati di Fratelli d’Italia (10,4%) e Forza Italia (5,5%). A questo punto è imprescindibile riflettere sul risultato e il ruolo del Movimento Cinque Stelle in questa elezione. Con il 7,41% dei voti l’ex movimento, oggi partito (e partito di maggioranza in Parlamento), ha registrato il suo peggior risultato nella regione, un quinto dei voti della Lega. La storia politica del Movimento in Umbria è di recentissima memoria essendosi candidato per la prima volta alle elezioni regionali del 2015 in cui si classificò in seconda posizione con il 14,6%, staccando di pochissimo la Lega ferma al 14%. L’exploit è avvenuto alle elezioni politiche del 2018 dove hanno raggiunto 27,5% delle preferenze, classificandosi come primo partito seguito dal Partito Democratico 24,8% e dalla Lega (20,2%). Dopo un solo anno al governo il Movimento ha dimezzato il suo consenso raccogliendo solo il 14,6% alle Europee di maggio, elezioni in cui ha trionfato la Lega con il 38,2% seguita dal Partito Democratico con il 24%. Certo, comparare diversi tipi di elezione è metodologicamente improprio ma fornisce un buon indice per misurare, dati alla mano, la salute di un partito, e quanto emerge in ottica Cinquestelle è francamente disastroso.

La lieve flessione dell’1,8% subita dal Partito Democratico è un’inezia se si pensa allo scandalo sanità che lo ha travolto in Regione e alla fuoriuscita – e alla contingente nascita di un nuovo partito – di Matteo Renzi. L’alleato di governo ha saputo “tenere botta” alla prima tornata elettorale successiva alla crisi d’agosto, cosa che non si può dire del Movimento stesso che ha fatto registrare un pessimo risultato. Esso è certamente drogato dall’esasperazione di un elettorato stanco del malaffare e della malasanità, cavalli di battaglia solo in parte leghisti e, propri, invece, del movimento capeggiato da Di Maio. Quel voto “di protesta” di cui spesso hanno beneficiato li ha puniti oltremisura, bocciando forse il nuovo governo o, più probabilmente, l’alleanza alle urne con il Partito Democratico che, agli occhi di un sostenitore Cinquestelle della prima ora, può risultare quanto meno contradditoria. A nulla sono valsi gli interventi più o meno edulcorati del guru Beppe Grillo, che in questi ultimi mesi ha spesso indicato la via ai suoi elettori anche con una certa veemenza avventuriera.

Il voto di ieri non può e non deve essere esasperato a “volontà del popolo sovrano” come – ovviamente – i vincitori si sono affrettati a dire, ma non può nemmeno essere ridicolizzato da ambo gli sconfitti. Quanto emerso nelle scorse ventiquattro ore, anche alla luce dell’ultimo sondaggio SWG che pone il centrodestra unito al 49,7%, non può essere ignorato dai due partiti di governo.
Certamente non sarà il risultato umbro a minare la già fragile coesione dell’alleanza giallorossa ma sarebbe miope non capire che, da agosto ad oggi, mantenere l’intero centrodestra – e soprattutto la Lega – all’opposizione non può far altro che aumentare i suoi consensi. La scelta di formare un nuovo governo, per quanto legittima e non criticabile da un punto di vista costituzionale, ha affossato i consensi pentastellati, ledendo l’immagine del Movimento come forza antisistema e avvicinandolo sempre più verso l’idea di vecchio partito che tanto rifugge. Contrariamente, l’azione e la narrazione di Salvini hanno portato quello che oggi è il più vecchio partito dell’arco parlamentare italiano ad esser percepito come novità politica, come Popolocontro l’élite. In tale contesto, il Movimento Cinque Stelle deve capire cosa vorrà fare da grande. In dieci anni, dopo la gestione, a volte fallimentare, di qualche grande realtà territoriale – Roma Capitale su tutti – sono stati chiamati solo lo scorso anno alle gravi responsabilità del Governo nazionale. Archiviata questa prima infelice esperienza di governo – ma solo per i consensi e non per i risultati, forse – si ritrova oggi a temere fortemente l’agone elettorale: un vero paradosso per una forza nata sui principi di democrazia diretta.

Oggi, i Cinquestelle dopo aver minimizzato la caduta sostenendo, giustamente ma con scarsa sensibilità politica, che mezzo milione di voti umbri non fossero rappresentativi della volontà del paese – sebbene ne siano bastati 52 mila sul caso Diciotti e 80 mila per la formazione dell’attuale governo espressi sull’opaca piattaforma Rosseau – in una nota di poche ore fa bollano, per bocca del leader Di Maio, come “un esperimento fallito” allearsi al Partito Democratico alle regionali, affrettandosi però a precisare che ciò non vale per l’altro esperimento, quello di governo.
L’Umbria è stata bollata come una regione di second’ordine e, malgrado ciò, ha saputo dare un quadro più che completo della situazione politica attuale. D’altro canto, per chi attende con ansia una competizione polarizzante, il prossimo appuntamento sarà fra poco più di un mese quando la rossa Emilia-Romagna sarà chiamata ad esprimere le proprie preferenze. Chissà quali saranno i risultati della terza regione per Pil pro capite e sesta per popolazione in Italia.
LUDOVICO CARINO