È molto tempo ormai che tutti noi siamo chiusi in casa: chi più chi meno data la possibile diversa ubicazione di chi scrive rispetto a chi legge. Ripensando all’esperienza di arresto domiciliare che tutti noi stiamo vivendo, in me hanno preso forma ulteriori pensieri rispetto a quelli precedentemente espressi nel mio primo articolo da eremita forzato.
In primis, è cambiato il punto di vista con il quale osservo da lontano il popolo italiano e della mia considerazione sull’amor proprio che la maggioranza di noi mostra nei confronti del bene comune. Mi riferisco al fatto che se dapprima andavo orgoglioso del tricolore sbandierato dai numerosi balconi nazionali e dalle cospicue donazioni dirette ai vari ospedali d’Italia perché in preda al sentimento di mancanza della mia terra, ora ho maturato una visione più cinica e distaccata depurata appunto dal sentimento. In me è quindi cambiato l’angolo d’osservazione del fenomeno. Partendo dal presupposto che l’orgoglio per la patria a mio avviso sia doveroso in quanto espressione di un vero e reale interesse per il bene comune, mi sono chiesto: ma esiste questo senso di appartenenza? Sventolare il tricolore e cantare orgogliosi l’inno nazionale, è sufficiente?… No!

Perché sono arrivato a questa semplice conclusione? Perché nel corso di questi 26 giorni ho come tutti letto e visto messaggi di speranza sciorinati da moltissimi personaggi politici, mediatici e di spettacolo: “insieme ce la faremo”. Assunto tanto lapidario quanto vero. Quello che mi domando però è se ancora una volta quest’ultima frase corra il rischio di rimanere uno slogan fine a se stesso chiuso e ristretto nei meandri dei social o possa effettivamente essere una delle basi su cui fondare o meglio rifondare una nazione e poi uno Stato. Lodevoli sono le varie iniziative private che hanno dato vita a raccolte fondi arrivate a cifre esorbitanti… e questo è un dato positivo (i miei più sinceri complimenti ad ogni singolo donatore).
In una situazione emergenziale è stato un modo efficace e veloce per creare nel concreto qualcosa che aiutasse a fronteggiare nell’ immediato una crisi unica nella storia. Quello che però mi ha fatto riflettere molto è che un sistema ci sarebbe già: pagare le tasse. Da questo ultimo dogma vorrei citare Padoa-Schioppa l’ex ministro dell’economia del lontano 2006:
Pagare le tasse è bello.
Frase che destò scalpore e scandalo in un’Italia sempre più circondata da ipocrisie e faziosità. Proviamo a dimenticare con quale governo collaborò e chiediamoci: ma che intendeva l’ex Vice-Direttore di Banca d’Italia? Banalmente richiamava il primo comma dell’articolo 53 della nostra Costituzione:
Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
Perché è bello pagare le tasse? Perché se tutti le pagano quest’ultime si abbassano. Perché se tutti le pagano rimpinguano l’erario che permette maggiori somme con cui poter pianificare interventi futuri. Perché se tutti le pagano contribuiscono alla cosa pubblica. Questo lungo escursus per sottolineare come in Italia siamo pronti a festeggiare la nazionale di calcio e a farci paladini del famoso made in Italy esportato in tutto il mondo salvo poi ritrattare quando si devono fare conti con l’Agenzia dell’Entrate.
Nessuno è patriottico quando si tratta di pagare le tasse, soprattutto in Italia (aggiungo io).
George Orwell
La donazione in sé non è sbagliata, è un atto di carità e bontà totale. Pensiamo però ad una cosa abbastanza banale: ma chi non paga per la cosa pubblica quando la legge lo impone, donerà mai arbitrariamente una qualsiasi cifra al di là dello scopo stesso della donazione? I donatori non saranno quindi le persone che già di consueto rispettano i dettami normativi? Se così fosse (ed è molto probabile), quest’ultimi quindi non solo pagano già tasse in una percentuale che sfiora numeri altissimi (Sì, lo dico anche io: LE TASSE IN ITALIA SONO TROPPO ALTE), ma di propria volontà pagano di nuovo per un qualcosa che già di per sé hanno pagato.

Ed è proprio su questo punto che voglio attirare l’attenzione: la coscienza collettiva imparerà da questa tragedia che esimersi dal pagamento non è un simbolo di furbizia ma di un tradimento nei confronti dello Stato e dei suoi cittadini? In tutto ciò è vero inoltre che l’impegno della classe politica nel cercare di incentivare il pagamento o punire gli evasori, non è sufficiente. Ci sono quindi due considerazioni da fare: la prima è che la classe politica (forse collusivamente) non adotta sistemi congrui per riscuotere i pagamenti; la seconda è che l’evasione seriale da parte di una vasta schiera di individui è patologica, quindi non si può solo ricondurre la questione al mancato controllo statale. In Italia è sentor comune che un minimo di evasione non sia chissà quale reato.

Su chi non paga le tasse inoltre c’è da fare un distinguo: premesso che come quanto detto dal sopracitato articolo 53 tutti debbano pagare, bisogna anche fare uno sforzo maggiore nel capire che coloro che causano il danno più grosso sono coloro che pagano meno. La tendenza italica è quella di addossare ogni colpa alla microcriminalità per il semplice fatto che è quella con cui tutti noi abbiamo possibilità di imbatterci. Le casse dello Stato però hanno meno perdita dal mancato pagamento del panettiere sotto casa rispetto ai grandi dirigenti d’azienda. Sono proprio quest’ultimi che concorrono a lacerare un sistema già di per se molto debole. Ed è in quest’ottica che lo Stato dovrebbe agire: ha senso impiegare risorse statali per scoprire il piccolo commerciante evadere o sarebbe meglio impiegare forze mentali e fisiche per combattere i grandi evasori? Badate bene: non si convince un evasore a pagare se la soglia di pagamento viene abbassata. Che sia alta o bassa, non pagare è sempre “conveniente”. Bisognerebbe quindi agire con riforme strutturali per tutti quei reati commessi dai colletti bianchi: il falso in bilancio o l’emissione di fatture false ad esempio. Lo slogan populista “in Italia si ruba e nessuno viene punito” ha infatti un fondo di verità. In Germania coloro che hanno commesso reati da “colletti bianchi” sulla totalità dei detenuti sono il 13%, in Italia lo 0,6%. Siamo sicuri che in Germania evadano di più? O forse in Italia vengono semplicemente presi meno evasori?

È il ventiseiesimo giorno di quarantena. Il nervoso mi assale dettato dalla carcerazione ma anche da altri pensieri.
Ora lo richiedo: impareremo qualcosa da questa esperienza? Guarderemo i vari programmi elettorali con sguardi diversi focalizzando l’attenzione in base a quanto dicono su materia sanitaria, assistenziale e scolastica (ampliare la spesa e non tagliarla), lotta all’evasione, alla corruzione… o “ce la faremo insieme” rimarrà l’ennesimo slogan della nostra storia recente?
EDOARDO CAPPELLARI