Vivere è essere un altro. Neppure sentire è possibile se si sente oggi come si è sentito ieri: sentire oggi come si è sentito ieri non è sentire, è ricordare oggi quello che si è sentito ieri, è essere oggi il cadavere vivo di ciò che ieri è stata la vita perduta.
Fernando António Nogueira Pessoa è nato nel 1888 a Lisbona. Si è fatto conoscere dal mondo intero come un poeta, scrittore, grande studioso e aforista per eccellenza, oggi è considerato uno dei poeti più rappresentativi del XX secolo. Perde il padre alla giovane età di cinque anni e poco dopo anche il suo giovane fratello. A causa degli impegni della madre con i figli avuti dal secondo matrimonio, il ragazzino si isola, concedendosi ampi spazi alla riflessione e tuffandosi nell’immaginazione. Pessoa ha trascorso la maggior parte della sua giovinezza in Sudafrica, facendosi spazio tra gli ostacoli del giornalismo, del commercio e della letteratura. A lui va riconosciuta l’invenzione degli eteronimi, ossia personalità poetiche complete, inizialmente inventate, che divengono autentiche attraverso la loro personale vita artistica, differente e distinta da quella dell’autore originale. Tra i principali eteronimi ideati da Pessoa ci sono: Ricardo Reis, Alberto Caeiro, Alvaro De Campos e Bernardo Soares. La vita vera è rappresentata dalla letteratura. Il poeta, infatti, sin da bambino mostra la necessità di spostare la propria attenzione verso un universo che non esiste e, con il passare del tempo, si distacca dalla vita e dalla realtà per nutrirsi di letteratura e di sogni. La difficoltà di conoscere veramente se stesso lo spinge verso una ricerca senza sosta che avrà modo di progredire in particolar modo grazie alla scrittura. Capace di innamorarsi solo una volta, oltre della letteratura, di una ragazza di dodici anni più giovane e che non molto più tardi finirà con il dover dimenticare. Gran sognatore, trincerato dietro nomi e biografie fittizie, vive in un mondo parallelo, sognante, non visibile agli altri. Considerato questo poeta esistenzialista una delle figure più prolifiche e controverse della letteratura del secolo scorso, si spegnerà nel 1935 a causa di una crisi epatica.

È stanco il poeta, è stanco di trarre nutrimento solo dai sogni, tanto stanco quasi da esserne ubriaco. Tanto che stenta a ricordare quale sia la “vera” realtà. Stanco della nostalgia e dalla consapevolezza del suo essere diverso da chi lo circonda, da chi incontra per caso girando per le vie di Lisbona. Stanco dal suo non essere amato per la sua diversità. L’anima eccessivamente sensibile finisce quindi col chiudersi, col fuggire al sentimento. Questa condizione spinge, con gli anni, Pessoa a creare Il libro dell’inquietudine. Si tratta di un insieme di testi non definitivi, presentati uno dopo l’altro, non per un progetto artistico voluto dal suo autore, ma secondo criteri semplicemente tematici adottati da Jacinto do Prado Coelho che, nel 1982, ha curato la prima edizione di un centinaio di fogli manoscritti. Il libro non si presenta scritto direttamente da Pessoa ma dal suo eteronimo Bernardo Soares. Bernardo è «un uomo che sta alla finestra». Un contabile che vive in affitto al quarto piano di un palazzo che si affaccia su Rua do Douradores, e vive affacciato al mondo che quella visuale gli offre; si sposta tuttavia nel suo quotidiano anche in altri spazi come ad esempio il suo ufficio o per le vie di Lisbona. Bernardo è però fondamentalmente un pensatore, un insonne, uno scrittore, un poeta e soprattutto un incapace: non sa vivere. È un essere sospeso e intrappolato in quel pensiero, nel suo pensiero.

È tutto ciò che avremmo voluto sentire e anche no, è il coraggio di arrancare dentro a un mistero riconoscendosi miseri e finiti. I pensieri raccolti sono pura e semplice poesia, pura e semplice riflessione. Malinconici e intrisi di sentimento. Ogni parola, ogni frase, è impregnata di dolore, morte, vita, eros, perdizione e smarrimento. Fin dalle prima pagine, superata la presentazione dell’eteronimo, la storia attesa non ci sarà. Il lettore compie un vero e proprio viaggio dentro la vita psichica di Bernardo Soares\Fernando Pessoa abituandosi presto alla mancanza di una continuità tra un pensiero e l’altro. Trovandosi così a danzare tra una, o meglio due, menti che possono condividere in parte, o meno, delle sensazioni.
La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo.
Ho avuto la fortuna di entrare in contatto con questo libro la scorsa estate. Mi trovavo a Como, dove ero andato a trovare un amico. Siamo entrati in una libreria probabilmente in cerca di un po’ di aria condizionata, visto il forte caldo che si respirava tra le vie del centro, e il mio amico mi ha messo tra le mani questo capolavoro dicendomi «Buon divertimento, auguri». Ho iniziato a leggerlo senza capire cosa volessero dire quelle parole, quelle frasi confuse con degli accostamenti improbabili. La volta successiva ho dovuto ricominciare dall’inizio perché non avevo per niente chiaro quello che avevo letto. Così ho fatto per altre volte. Andando avanti riuscivo a immergermi sempre più in profondità in quelle pagine che parlavano di libertà, della magia della notte, della nostra anima come una grande e misteriosa orchestra.

A volte impaurito dal pensare di condividere le stesse angosce, desideri, dubbi, interrompevo la lettura per poi riprenderla poco dopo. Lo trovo un capolavoro, capace di presentare in totale sincerità tutto ciò che pensiamo, vediamo, immaginiamo e nascondiamo. È possibile che l’intento di Pessoa fosse quello di scrivere per curarsi, ma senza alcun dubbio io trovo quest’opera una vera e propria cura e culla per la nostra anima.
Un inno alla riflessione e all’introspezione.
Un mezzo di trasporto diretto in noi stessi.
Un punto di vista sicuramente particolare.
Ci sono sensazioni che sono sogni, che occupano come una nebbia l’intero spazio dell’anima, che non permettono di pensare, che non permettono di agire, che non permettono chiaramente di essere. Come se avessimo dormito, qualcosa del sogno sopravvive in noi, e il sole ha un torpore che riscalda la superficie immobile dei sensi. È un’ubriachezza di non essere niente, e la volontà è un secchio che viene rovesciato nel cortile da un movimento indolente di un piede che passa
MAURO NEGRI