IL MANICOMIO DIGITALE

Ci sono libri che, letteralmente, cambiano la vita. Basta una frase, una parola inserita tra altre che sembra essere nel suo naturale posto nell’ordine dell’universo. Quando, cinque anni fa, decisi di iscrivermi alla facoltà di filosofia, era esattamente questo ciò di cui volevo nutrirmi; desideravo trovarmi immersa in un oceano di pagine, totalmente priva di porti sicuri a cui approdare, e trovare nella distesa infinita di parole l’epifania, l’intuizione giusta, il discrimine. Ci sono tante ragioni per studiare filosofia, contro tutte le motivazioni che potrebbero spingere a rinunciarvi. Solo al mio ultimo anno magistrale sono riuscita davvero a concretizzare il valore della mia scelta. Non basta la passione. Non basta amare i libri e le parole. Non basta desiderare ardentemente di capire il mondo in cui viviamo, le persone con le quali ci relazioniamo. Non si tratta di fissare interpretazioni o inventare chiavi di lettura del mondo, estremamente contingenti in una società in cui si crede che tutto sia già stato detto. Non basta esercitare il pensiero critico. Ho coltivato una riluttanza sempre più rilevante verso la figura del filosofo sullo stile di Talete che cade nel pozzo perché poco attento alle cose di questo mondo, nell’intento di osservare il manto del cielo e praticare l’esercizio del pensiero astratto. Credo che siano le parole a formare il mondo, e che pertanto non ci sia niente di più concreto di dare forma alle cose tramite ciò per cui l’essere umano pretende un primato rispetto a tutti gli esseri viventi che popolano questa terra: il pensiero e il linguaggio. Ma questo non significa sprofondare tra una sedia e una scrivania senza accorgersi di ciò che abita le strade e la vita degli uomini. Al contrario, significa viverle. Immergercisi, accettando il rischio di soffocare. Senza divagare troppo, torno ora a quel libro di cui parlavo, che credo mi abbia seriamente cambiato la vita. A dire la verità, sono stati più libri a scavare dentro di me fino a rimodellarmi, a regalarmi occhi nuovi… insomma, un esame, tra i tanti incontrati in questa fabbrica di esami, mi ha fatto morire e risorgere. L’esame trattava di Basaglia, della follia, della psichiatria.

Franco Basaglia

Su Basaglia c’è troppo da dire, mi dilungherei eccessivamente, e se proprio dovessi farlo vorrei farlo come si deve, ma non è questo il luogo adatto. Tra la bibliografia secondaria era inserito il “libretto” di uno psichiatra – Piero Cipriano – Basaglia e le metamorfosi della psichiatria. Cipriano individua nella storia tre tipologie di manicomio: il manicomio concentrazionario (quello dove venivano internati tutti i matti, si capisce, quello che dall’alto delle nostre convinzioni pensiamo non esista più, e invece continua ad esistere sotto altri nomi), il manicomio molecolare (quello costituito da <<etichette e farmaci>>, incredibilmente iatrogeno) e infine il manicomio 3.0. È quest’ultimo sul quale vorrei offrire la possibilità di gettare uno sguardo.

Piero Cipriano


Il manicomio 3.0 è quello digitale, quello della rete e dei social network. Quello per cui si inizia a parlare di psicopolitica e non più biopolitica, per cui si può definire l’esistenza di un nuovo tipo di panottico che non è più destinato a tenere sotto stretta sorveglianza i carcerati (contro la loro volontà). Il nuovo panottico sorveglia la società nella sua interezza, ma la cosa inaudita è che non si tratta di una sorveglianza coercitiva ed etero-imposta. È la sorveglianza priva di coercizione a cui le persone si sottopongono volontariamente. Si decide spontaneamente di permettere all’altro – senza discrimine – di penetrare nella propria quotidianità, persino nella propria intimità, sottoponendosi così all’incessante pressione dello sguardo altrui. Ricercando conferme nella quantità di like, che determina così quello che piace o non piace, e dunque le future decisioni. Il like ha il potere di modificare il sé. Questo sistema di giudizio senza parole, è possibile pensare, ha delle conseguenze disastrose anche sulle modalità di espressione, che sono sempre più essenziali e prive di personalità. Così, se le parole non servono, il nostro linguaggio si impoverisce, e <<la coscienza si restringe>>. Ma non è tutto qui. Lo psichiatra autore di questo libretto, ci dice che il like produce psicosi. In pratica, lo scenario è disastroso, disgraziato: se attraverso il manicomio molecolare (chimico) ogni tipo di crisi puramente umana viene patologizzata in nome di un fantomatico benessere psicofisico dell’individuo, che viene così spinto a prendere psicofarmaci che faranno dell’essere umano – naturalmente emotivo, quindi a tratti triste, a tratti ansioso, a tratti arrabbiato – un essere malato, con il social network si crea una schiera ancora più numerosa di malati. L’utente si ammala per un eccesso di dopamina nel cervello, che è l’origine, appunto, della psicosi. La cura? Disconnettersi. Ci sarà un motivo per cui, in questa società della prestazione in cui tutti creano la propria “originale” vetrina di sé, i tassi di suicidi giovanili sono preoccupanti e le persone muoiono sulle aspettative che non riescono a soddisfare. Il problema non è un cervello rotto, né i neurotrasmettitori malfunzionanti. Il problema è che se un adolescente, in piena crisi, dice ai genitori che si sente strano, triste, non ha voglia di fare nulla, i genitori molto probabilmente non cercheranno una soluzione concreta a questa crisi.

Piero Cipriano, Basaglia e le metamorfosi della psichiatria

Penseranno che lo psicoterapeuta (o psichiatra) può essere la soluzione. E così, gli adolescenti crescono a social network e psicofarmaci, alimenti patogeni, per cui non può che prospettarsi una società di crescenti malati, individui depressi che hanno bisogno della serotonina, e poi degli ansiolitici, e poi degli antipsicotici. Non si sospetta che forse questo adolescente ha bisogno di guardare in faccia l’esistenza? Che attraverso uno schermo non è possibile crescere e sapersi orientare nel mondo? Di cosa mai avrà bisogno di una persona che fatica a trovare la propria via tra i sentieri dell’esistenza? Forse solo di sporcarsi le mani, di tentare, sbagliare, accettare che non ogni strada è percorribile, che camminando ci si può fare male, ma rialzandosi il cammino sarà più ricco, più comprensibile, meno insidioso. Finché non si prova a camminare, tutto sembra inarrivabile; spesso tutta la difficoltà si risolve nel pensare, che dovrebbe a volte lasciare spazio al fare. Fare e basta. Agire. Da soli, o insieme. E, sicuramente, questa persona, avrà bisogno di raccontarsi, farsi parola, essere una narrazione, per comprendersi (ma anche per essere compresa), per non perdersi nel fluire del tempo e delle cose. E questo necessita anche di amici, non virtuali, ma reali, con i quali sporcarsi in compagnia.

Non c’è niente che non va nel cervello di colui che chiede aiuto, o che ne manifesta il bisogno. La crisi, la tristezza, non è depressione, non è malattia. È umanità. Incollati uno schermo sono tutti soli, anche se il nome digitato nella barra della ricerca fa credere il contrario, ossia fornisce l’impressione di esistere. La vita, la verità, la vera esistenza, iniziano proprio nel momento in cui si decide di spegnere lo schermo, disinstallare le app-fabbriche-di-psicotici e così, di iniziare a vivere. Concludo con una frase di Cipriano:

L’idiotismo, la riluttanza a questa corsa all’internamento digitale, è forse l’ultima “pratica di libertà” rimastaci.


In che senso, quindi, questo libretto mi ha cambiato la vita? Mi sono disconnessa, senza possibilità di ritorno. Da un minuto all’altro, ho deciso di guardare un po’ meno lo schermo e un po’ di più le persone. E nei momenti morti? Scrivo paginette come queste. O un racconto. O leggo qualcosa. O mangio. O fumo una sigaretta, cercando di accorgermi davvero di ciò che mi sta intorno. C’è vita al di là della rete. E molta di più. A volte è bello prendersi la libertà di decidere di che tipo di umanità si vuol esser parte.

ALESSIA MONETA

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